10 apr 2012

Il diritto all’ozio - di Paul Lafargue


Paul Lafargue (1842-1911)
Nell’Italia del 2012 è un continuo sproloquiare dei media sulla necessità di fare sacrifici, ridurre i diritti dei lavoratori, ridurre le pause, aumentare l’orario di lavoro, prolungare la vita lavorativa, ridurre e posticipare l’erogazione delle pensioni, etc. Per questo ho ritenuto interessante recensire questo celebre pamphlet che fu tra i maggiori contributi all’affermarsi del principio (oggi tanto fuori moda) della tripartizione della giornata lavorativa in 8 ore di lavoro, 8 di riposo e 8 per ricrearsi. Dannatamente inattuale e terribilmente attraente, o no? Siamo nell’epoca post ideologica, i sistemi socialisti sono implosi dunque che cosa avrà mai da dire di attuale un testo così “fuori tempo”: sorprendentemente molto!
In questo arguto pamphlet si rivendica il diritto di non fare nulla o meglio il diritto di poter fare “altro” dal lavoro, quell’altro che è precisamente la migliore salute, il coltivarsi nel corpo e nello spirito, ovvero la più alta forma di umanità.
Anche San Paolo esaltava la laboriosità, “chi non lavora non mangia” la regola fatta propria dai primi socialisti in polemica con il parassitismo del fare niente dei padroni, tutta la cultura moderna occidentale è permeata dall’etica del lavoro, tanto e bene, del diritto/dovere di lavorare; Lafargue tuttavia opera una rivoluzione prospettica: se è vero che “il lavoro rende liberi” e pertanto è imperativo il “diritto al lavoro”, ovvero la “libertà del lavoro”, questo non è tuttavia il fine ma un mezzo, occorre sapersi contenere dalla spinta a lavorare sempre di più, giacché la libertà di cui il lavoro è strumento, è in realtà la libertà (liberazione) dal lavoro stesso, macchine e progresso tecnologico forniscono il necessario surplus produttivo tale da consentire una più equa ridistribuzione delle fatiche e una minore (in termini percentuali) necessità di dedicarsi alle fatiche della produzione.

Questo breve (circa 40 pagine) ma fortunatissimo scritto è stato pubblicato in moltissime lingue e ancora oggi 132 anni dopo la sua prima pubblicazione offre spunti di riflessione tutt’altro che desueti. L’autore Paul Lafargue, genero di Marx (quello del Capitale), pubblicò “Il diritto all’ozio” nel 1880, obiettivo della sua invettiva erano i “Diritti dell’uomo” figli della rivoluzione francese, ovvero in particolare i limiti di orario della giornata lavorativa fissati per uomini, donne e bambini. Da buon socialista Lafargue rifiutava il compromesso con il sistema perché dal suo punto di vista qualunque compromesso è una concessione al sistema, come Rostagno oltre un secolo dopo, egli non voleva sedersi al tavolo (della trattativa) ma rovesciarlo. All’epoca della prima industrializzazione gli orari di lavoro standard erano notevoli 14/16 ore al giorno (anche in miniera), settimane di 10 giorni, le varie festività specie quelle religiose erano state abolite da Napoleone (o comunque drasticamente ridotte) e il risultato era sotto gli occhi di tutti, i salariati diventavano nuovamente schiavi, questa volta del lavoro; ad ogni crisi da sovraproduzione si innescava una guerra tra poveri rassegnati al ribasso pur di non perdere il lavoro (unica via di sopravvivenza). Il punto di vista di Lafargue è che sia appunto il sistema capitalista a incatenare i salariati e a immetterli in un meccanismo autodistruttivo, sono infatti proprio i salariati (non consapevoli del meccanismo) che  esposti come sono agli alti e bassi del mercato, chiedono via via sempre meno diritti e sempre meno denaro in cambio di orari sempre più dilatati e periodi di riposo sempre meno frequenti, questo per l’ansia di perdere anche il poco che hanno. 
1907 - Minatori italiani (bambini compresi)
Non a caso, fa notare Lafargue con caustica ironia, sono gli stessi industriali a imporre una riduzione dei turni di lavoro (parliamo di 14 ore al dì, dei veri benefattori) e qualche giorno di pausa obbligatorio ogni tanto, questo perché la produzione ne risente positivamente in qualità e quantità. Ora se è vero, come dimostrano le cifre ufficiali fornite dagli stessi industriali, che una piccola riduzione dell’orario di lavoro ha ottenuto uno straordinario aumento della produzione, chissà quali incredibili risultati darebbe una riduzione dell’orario di lavoro a sole 3 ore al giorno, che è appunto la provocatoria proposta di Lafargue.
Al di là delle provocazioni gli strali di Lafargue colpiscono nel segno e sono sorprendentemente attuali nell’analisi ancora oggi, Lafargue non visse abbastanza per vedere applicato il principio delle 8 ore giornaliere e della pausa settimanale (a favore del quale si era battuto risolutamente) che a partire dal 1909 in Francia incominciò poi a essere adottato negli anni successivi in larga parte degli stati europei. Sul finire degli anni ’30 erano milioni i salariati che godevano di un cospicuo periodo di riposo estivo, nel 1936 oltre 1milione e mezzo di parigini inaugurò il fenomeno degli esodi estivi lasciando Parigi per il mare durante la pausa estiva dal lavoro. Alla fine degli anni ‘50 inizio ‘60 esplose il fenomeno degli esodi estivi di cui il campeggio fu la bandiera del riposo popolare. 

Ora nel 2012 in questa Italia martoriata dalla crisi economica si va raccontando che questa ubriacatura di libertà dal lavoro è stata un’illusione, una frode che le generazioni passate faranno pagare alle presenti e alle future. Sobrietà, abnegazione, rigore: sono le parole d’ordine del potere post crollo finanziario. La ricetta è quella di un secolo e mezzo fa, quella dei primi grandi imperi industriali: riduzione dei diritti dei lavoratori, allungamento dell’orario di lavoro, diminuzione delle giornate non lavorative, turnazione per produzione a ciclo continuo e addirittura ora c’è chi incomincia a parlare della necessità di fare corrispondere i salari all’effettiva produttività, come se questa dipendesse direttamente dal lavoratore e non anche (e sopratutto) da altri fattori quali investimenti in tecnologie produttive. E una volta ottenuta questa sovraproduzione (la stessa Fiat di Marchionne aveva fissato obiettivi produttivi molto superiori ai reali trend delle vendite) dove mai si potrà trovare un mercato in grado di accogliere i prodotti quando i salariati, sempre più poveri e compressi nelle loro risorse, non avranno più i mezzi per diventare a loro volta consumatori?

La disoccupazione è un sacrificio necessario per superare la crisi, una cosa temporanea per stare meglio dopo, così recita il potere (in Italia e altrove) eppure come mai potrà la minoranza, sebbene sempre più ricca, compensare la riduzione forzata dei consumi di masse di milioni di persone? Nel mondo di Lafargue le fabbriche producevano più di quanto potesse essere collocato sul mercato interno (e per questo gli stati cercavano nuovi mercati con le conquiste militari), i salariati erano esclusi dalla possibilità di acquistare gli stessi beni che producevano e pertanto la distanza tra ricchi e poveri aumentava. E’ dell’aprile 2012 la notizia che in Italia i capitali dei 10 uomini più ricchi della nazione sia pari alla somma degli averi di 3 milioni degli italiani meno abbienti, una distanza siderale. Inoltre i livelli di sovraproduzione moderna sono enormemente più elevati di quelli di fine ‘800 e paradossalmente il vasto mondo globalizzato non è più (per altri versi, non è ancora) un mercato sufficientemente elastico e permeabile da assorbire i volumi produttivi dell’occidente industrializzato.
Il diritto all'ozio
Oggi nel pieno della crisi economica del 2012, 132 anni dopo la pubblicazione del pamphlet di Lafargue, i turiferari del capitale non fanno che instillare il senso di colpa: avete fatto le cicale ora vi tocca rimediare. Ma la crisi globale non era partita dalla speculazioni finanziare di pochissimi super ricchi? e ancora questa forbice tra ricchi e poveri non si è ulteriormente allargata? e allora la Tobin tax (-0.05% sulle transazioni finanziarie)? Macché, colpa nostra che non abbiamo voglia di lavorare; dobbiamo lavorare di più guadagnando meno e se il lavoro non c’è è perché le aziende non possono licenziare quei pochi che un lavoro (sempre peggio pagato) ancora ce l’hanno. Che il danno ci sia e sia grave non ci sono dubbi, così come non ci può essere dubbio alcuno che siano stati coloro che adesso propongono le loro soluzioni a provocare la malattia che cercano di curare. Quello che francamente trovo incredibile è che il clima da catastrofe imminente abbia reciso ogni capacità di critica e di reazione, il meccanismo mi ricorda quello della guerra al terrore di Bush, siamo davanti a catastrofi incombenti di enormi proporzioni, mettete da parte ogni resistenza e fidatevi di noi, se non siete con noi siete parte del problema. 
Ora il punto è: con che diritto un manipolo di teorici la cui vita non è mai stata neppure lontanamente apparentata alle condizioni di vita della maggioranza delle persone, può decidere per tutti? La sola spiegazione è la paura. E’ la paura, e anche la vergogna, quel senso di inferiorità e di colpa che i media stanno propagandando che fanno sì che invece di reagire ci si rassegni. Il governo Monti non è responsabile del disastro al quale è stato chiamato (ma non dagli italiani) a porre rimedio, ma anche questo gruppo di saggi è fallibile, e la ricetta proposta ha costi sociali che solo un algido cinismo può considerare accettabili. Se quel che conta è il risultato allora si poteva fare come Stalin che se l’era presa con i Kulaki, in Italia avremmo potuto giustiziare metà dei pensionati (non erano loro le cicale?) e avremmo dimezzato il debito, ricetta troppo eugenetica? allora perché non abbattere gli stipendi pubblici più alti (tutti, politici e professori compresi) a livello di un quadro di una pmi? questo non avrebbe causato la fuga dei capitali privati interni ed esterni, ma avrebbe almeno a livello dello Stato dimostrato la condivisione del sacrificio a cui si chiama l’intera nazione, altrimenti l’input al sacrificio collettivo suona come il motto di quei gerarchi che incitavano le reclute “armatevi e partite!”
Licenziati/Clochard a Osaka
In Italia hanno destato molto clamore i recenti casi di suicidio tra pensionati, imprenditori e dipendenti stremati dalla recessione economica (e atterriti dalle riforme in atto), tuttavia malgrado le inevitabili e non del tutto immotivate aspre polemiche, è chiaro che non sono direttamente frutto dell’azione di questo governo. A mio avviso la causa prima di questo fenomeno va cercato altrove, presumibilmente in problematiche individuali che trovano nel clima da catastrofe incombente l’ultimo e in realtà il meno determinante stimolo a gesti lungamente premeditati. In Giappone c’è un fenomeno unico (almeno per ora) di istituzionalizzazione del fallimento personale, chi fallisce non si suicida più fisicamente ma socialmente (il seppuku è cosa da samurai, ormai solo il tragico vezzo di  qualche premio Nobel autoctono). Chi perde il lavoro si autoesclude dal mondo civile sottraendosi dal giudizio collettivo, la vittima di questa enorme pressione morale, la sanzione sociale del fallimento, semplicemente si sottrae alla vergogna e con questa sparizione salva e libera la sua famiglia dalla gogna sociale. E’ il fenomeno degli impiegati e dei dirigenti giapponesi che perdono il lavoro e che invece di tornare a casa e esporsi al pubblico ludibrio per quello che è vissuto come una colpa personale, si autoemarginano andando a vivere come clochard nei vicoli delle grandi metropoli, non più cittadini, non più oggetto di sanzione alcuna, letteralmente al di là del bene e del male. Questo fenomeno dà da pensare se si considera che in una grande città come Milano le statistiche parlano di persone che si indebitano pur di fare le vacanze all’estero e non è raro il fenomeno di quanti non potendo “andare in vacanza” si autorecludono nella propria abitazione chiudendo le persiane ed evitando il contatto con le persone per simulare di essere anche loro in ferie.
Concludendo la lettura de “Il diritto all’ozio di Lafargue” è una buona medicina, quasi un’iniezione di ottimismo in tempi così cupi. L’invettiva di Lafargue non è infatti contro il lavoro in sé quanto piuttosto al suo eccesso e sfruttamento. Certo rispetto agli orrori del primo capitalismo i cui inferni si chiamano miniere e telai meccanici e che vedono un’umanità cenciosa, bambini compresi, ai limiti delle proprie forze contendersi il lavoro a colpi di ribasso delle proprie pretese, il lavoro moderno può sembrare un parco giochi. Quel che resta di invariato però è il principio, il lavoro libera, è un diritto, ma non deve diventare eccessivo altrimenti non solo causa abbruttimento ai sommersi ma anche  l’eccessiva divaricazione che verrà a crearsi tra ricchi e poveri non permetterà più di collocare i beni prodotti. 

Milton Friedman (1912-2006)
Nella concezione liberista alla Milton Friedman si ritiene appunto che sia il mercato stesso ad autoregolarsi riequilibrando quando necessario in base ai flussi di domanda e offerta, ma questo come la storia insegna non è assolutamente vero sul piano delle conseguenze umane (basti pensare al Cile friedmaniano di Pinochet ). Per capirsi anche il caso dello schema di Ponzi è teoricamente autoregolatorio, infatti mano a mano che la piramide (il multilevel) si allarga il sistema non è più in grado di sorreggere l’illusione e collassa, è quello che è successo con Madoff. Quello che però la teoria non dice è quanti cadaveri tale crollo lascia dietro di sé, nello specifico il danno è stato di tale entità da sconquassare l’equilibrio mondiale. Ora è chiaro che se ci si pone sempre dal punto di vista del gruppo dei salvati il problema non ci riguarda, e anzi il male necessario, fortifica il sistema. Tuttavia gli eventi della crisi finanziaria mondiale hanno mostrato come il confine tra sommersi e salvati sia molto labile e come l’ascensore sociale funzioni in una sola direzione verso il basso, dove i salvati salgono sempre più su ma per strada perdono alcuni colleghi che vanno a ingrossare la massa dei sommersi. Solo un feroce darwinismo sociale può sostenere un tale cinismo opportunista. Pur non confidando nell’umana bontà preferisco pensare che l’istinto sociale (e di sopravvivenza) possa infine prevalere malgrado le affabulazioni pirotecniche di una informazione non sempre a tutto tondo.