20 apr 2012

Cronache del mondo rimosso - di Slavoj Zizek


Slavoj Zizek
Per chi non conoscesse l’istrionico filosofo sloveno Slavoj Zizek questa raccolta di brevi saggi e articoli può offrire una buona occasione per avvicinare l’esuberante personalità di un pensatore fieramente “di parte”, capace di mescolare elementi pop (cinema, televisione, etc.) con riferimenti alti sia in campo filosofico sia  psicoanalitico. In questa raccolta dal titolo “Distanza di sicurezza. Cronache del mondo rimosso” trovano posto brevi interventi a commento degli eventi (e loro conseguenze) che hanno segnato il post 11 settembre a partire dal primo anniversario degli attentati. Zizek fa proprio l’adagio di Lacan:”La verità si esprime negli spiazzamenti del tema centrale” e il risultato è una miscela conturbante e originale di elementi diversi e distanti tra loro che riesce a fare scaturire il pensiero alto dalle piccole cose, e che può aprire squarci di comprensione sui grandi temi, operando da punti di vista originali e inaspettati. 
In queste brevi incursioni da editorialista, Zizek affronta il tema della libertà e le sue storture attaccando le strutture di controllo del consenso (siano esse manifestazione di un potere o un fenomeno culturale o psicologico), molte le notizie provocatorie e curiose (ma vere) che si possono trovare nei testi. Il punto di vista critico di Zizek si pone da una prospettiva “di sinistra” ma che affonda nell’esperienza diretta del socialismo reale (con tutti i suoi lati oscuri) e della sua dissoluzione, è il punto di vista di chi guarda al passato senza rimpianti e in modo critico al futuro (/presente)  che viene propinato come il migliore dei mondi possibili (una non scelta, essendo priva di alternative, che a uno sguardo disilluso suscita più di qualche diffidenza).
La cultura pop irrompe nei testi fornendo spunto e pretesto per ragionamenti sui massimi sistemi, così il richiamo al film “Minority Report” apre a una riflessione sul concetto di “attacco preventivo” laddove il trasformarsi in vittima degli USA ha condotto alla logica del “con noi o contro di noi” ovvero alla pretesa di essere la sola istanza possibile. Rispetto ad essa gli USA gridano al mondo “svegliatevi”, ma la realtà è che con questo imperativo si anestetizza la capacità di giudizio altrui (del popolo americano e della comunità internazionale) per riscuotere un appoggio che non accetta alcuna verifica o condizionamento (la critica è ammessa purché non produca effetti pratici, in quanto funzionale al mantenere la facciata democratica). 

W. Bush
Zizek mostra gli aspetti patologici della paranoica missione di “esportazione della libertà” (o della democrazia), egli scrive nella contemporaneità dei fatti, durante la seconda guerra del golfo, e proprio nell’evoluzione delle sue analisi si può leggere una non comune capacità di penetrare le contraddizioni dell’amministrazione americana (in piena revanche dagli attentati), che purtroppo possono ricordare le più cupe manifestazioni ideologiche del ‘900 a cominciare dal nazismo della soluzione finale, che non diversamente da Bush (il quale invoca il proprio Dio a garante della missione salvifica per l’umanità contro il male), adottava posizioni altrettanto mistificatorie alimentando la teoria della “missione epocale”, del “compito della storia” (guarda caso il vettore del destino dell’uomo erano i nazisti stessi. Dal loro punto di vista si facevano carico di uno scomodo fardello per il bene dell’umanità, quella autenticamente tale, la loro). Sebbene sia chiaro che gli usa non promuovano alcuna “soluzione finale”, non è però difficile rilevare inquietanti similitudini nel linguaggio della propaganda pro guerra e nella politica militare USA nei confronti dell’islam (ma estendibile a qualunque realtà non perfettamente compiacente e diversa da sé). La minaccia terroristica spogliata di una precisa collocazione (non un popolo, un nazione, ma una non meglio definita cospirazione internazionale) apre le porte alla percezione di un pericolo le cui proporzioni sono insondabili, un’emergenza permanente; allo stesso modo anche la risposta (resistenza) a questa formidabile minaccia non può cessare, è la “giustizia infinita” di Bush & C appunto (inquietantemente imparentata alla teoria del “colpo alla schiena” di triste memoria). 
Nell’America del conflitto di civiltà, quella del patriot act e della sospensione dei diritti civili, un rassicurante segnale del persistere della democrazia sta paradossalmente nell’emersione degli scandali di Abu Ghraib (terribili in sé),  solo in una autentica democrazia avrebbe potuto emergere una simile notizia, le dittature semplicemente oscurano (e con efficacia) le informazioni sgradite.Questo elemento da solo non basta tuttavia a mettere al riparo dai pericoli di una cultura del nemico così maledettamente funzionale al capitale e alle ciniche speculazioni geopolitiche ed economiche che ne derivano. 

Nella foga del patriottismo anche il linguaggio si fa meno circospetto e la pancia dell’America, quella del radicalismo, del populismo e del fanatismo religioso cristiano, trova una cassa di risonanza e si mostra come il lato oscuro del paese, l’altra faccia del sistema, ineliminabile e ad esso indissolubilmente legato. Non è quindi un caso che il columnist favorito da Bush, Fareed Zakaria (autore nel 2003 del saggio “Democrazia senza libertà” -The Future of Freedom: Illiberal Democracy at Home and Abroad), disserti sul concetto di “deMOREcrazy” ovvero di quelli che a suo avviso sono i pericoli connessi ad un eccesso di democrazia, laddove teorizza la necessità di fare precedere la libertà (dalle regole) alla democrazia (l’istituzione di regole comuni) affinché “ciò che deve essere fatto si possa fare”. Siamo al  fraintendimento più profondo del mandato democratico laddove il leader non si interpreta più come un delegato bensì come il condottiero, che non segue ma guida. Una deriva pericolosa che in pratica ha già attecchito in modo pervasivo ma non altrettanto evidente sul piano dell’economia globale dove ogni decisione è irregimentata e regolata da poteri depoliticizzati in forza della presunta  necessità tecnica interna al sistema stesso. 

E’ impressionante leggere questo tipo di analisi (risalenti al periodo 2002/2004) considerando il privilegio del “senno di poi” del nostro punto di osservazione nel 2012, che ha visto la cessazione dell’intervento militare, il crollo della finanza mondiale e un progressivo abdicare della politica a un manipolo di tecnici cui è affidato il compito di preservare e salvare il sistema. 
La cosa è particolarmente evidente in Italia retta in questi mesi da un governo di “tecnici” nominato senza il passaggio elettorale. Il principio della “deMOREcrazy” prevede l’indebolimento di ogni forma di controllo e regolamentazione che possa  frenare, ispezionare o rallentare il sistema. Tipicamente questo è un trend totalitario laddove l’assunto (primo e indiscutibile) è che nessuna istanza o esigenza è contemplata al di fuori del sistema stesso, nel nostro caso significa che come gli USA hanno sistematicamente rifiutato ogni forma di condivisione del controllo o valutazione da parte di terzi del proprio operato (hanno rifiutato di sottoscrivere impegni ONU, e di riconoscere qualsivoglia organismo internazionale su qualunque decisione di politica interna o estera, interventi militari compresi) rivendicando per sé di essere l’incarnazione stessa del solo sistema accettabile (che quindi non può accettare interferenza alcuna ma è tuttavia legittimato ad esercitarla verso terzi);  analogamente nell’Europa e sopratutto nell’Italia (ma anche Grecia e Spagna) del 2012 si avvera il medesimo schema, questa volta in modo ancora più impersonale e depoliticizzato: è il sistema economico nella sua  pretesa terzietà, nella pretesa di essere esclusivamente un elemento tecnico, a imporre e disporre le più dolorose riforme sociali che stanno azzerando le conquiste sindacali degli ultimi 100 anni, aprendo a un sostanziale liberismo darwiniamo di modello friedmaniano. La giaculatoria secondo la quale è un fatto tecnico la necessità del salvataggio (in questo modo, e quale che ne sia il prezzo sociale) di “questo sistema economico”, indica una priorità che cozza brutalmente con l’innegabile verità che la situazione attuale (la crisi finanziaria) sia il frutto di questo stesso sistema economico. In questa prospettiva è straordinariamente significativo che ogni sforzo del potere sia indirizzato più all’escludere l’esistenza di qualsiasi alternativa agitando lo spettro di conseguenze ancora peggiori, piuttosto che enumerare i vantaggi (ma ci sono davvero?) di questo salvataggio. Come per lo scontro di civiltà dove si pretende di poter tracciare una linea che separa il bene dal male, anche il potere economico richiede un nemico potente e terribile che funga da leva per l’eliminazione di ogni resistenza e critica all’azione intrapresa. Come in guerra: “se non sei con noi, sei contro di noi”, un diktat che se può avere una sua coerenza in soggetti come Lenin, laddove traduce in pratica il confrontarsi di sistemi incompatibili, ma è decisamente fraudolento in un sistema che si dichiara democratico e pretende di incarnare la volontà dei molti. 
Il riassetto degli equilibri mondiali post 11 settembre non è il solo tema affrontato da Zizek, in questi brevi e sapidi interventi trovano spazio riflessioni su vari temi e anche le analisi di alcuni film come “The passion” di Gibson e la trilogia di “Matrix”(su questo segnalo, sempre di Zizek, il saggio “The matrix” dedicato alla  trilogia) e di un paio di giallisti come Patricia Highsmith (di cui Zizek è un cultore) e lo svedese Mankell. Quale che sia l’argomento Zizek non cessa di provocare giocando sullo spostamento dei piani interpretativi e articolando relazioni e suggestioni sorprendenti e spiazzanti. Una continua fucina di spaesamento in fuga dai luoghi comuni alla ricerca di quello che c’è (o potrebbe intravedersi) sotto.
Una lettura senz’altro stimolante.

[ Distanza di sicurezza / Slavoj Zizek / Manifestolibri ]
[ The matrix / Slavoj Zizek / Mimesis ]

16 apr 2012

La casa dell’incesto - di Anais Nin


Anais Nin (1903-1977)
Il titolo è urtante, non ci sono dubbi, ma il testo è veramente lirico. Si tratta di un poemetto in prosa di appena una sessantina di pagine in cui l’autrice da libero sfogo a un lirismo esuberante in cui si mescolano erotismo, spunti psicanalitici e simbolismi surrealisti. Un linguaggio ricercato e una vaga trama esotica, dove realtà e sogno si mescolano lasciando erompere una tensione erotica, sempre intensa, che oscilla tra estasi e disperazione. L’autrice definì il proprio libro “la mia stagione all’inferno”.
La lettura di questo breve testo può spiazzare per la difficoltà nel trattenere la trama e per la difficile interpretazione dell’apparato simbolico, ma il suo pregio maggiore sta proprio in questo ostacolo alla concettualizzazione, lo si deve prendere come viene, come si ascolta una composizione musicale, senza sovrastrutture mentali alla ricerca di associazioni e/o rimandi, solo farsi cullare dalle suggestioni del flusso di parole. 
Per quanto possa sembrare remoto il collegamento, ho associato questo testo al “Pasto nudo” di William Burroughs, in entrambi i casi infatti il testo si sforza di lasciare che parole e immagini siano solo sè stesse, nude emanazioni della psiche dell’autore, della sua anima. Burroughs si definiva “un cartografo di sè stesso” e si sforzava di riportare senza mediazioni sulla carta le visioni allucinate della sua psiche sotto effetto delle droghe, ovvero (dal suo punto di vista) la realtà nella sua nudità, che spogliata di ogni sovrastruttura interpretativa fa emergere la violenza nascosta e le strutture di controllo. 
Dai suoi diari sappiamo invece che Anais Nin mise mano ripetutamente al testo de “La casa dell’incesto” che quindi (diversamente dalla pretesa neutralità di Burroughs) è evidentemente il frutto di un lavoro di cesello, ma quello che conta è che il testo finale mostra a mio avviso molte affinità con la “trascrizione” burroughsiana. “La casa dell’Incesto”  è una sorta di autoanalisi, una serie di associazioni spontanee e travestimenti interpretativi, l’esposizione di un’anima nelle sue tensioni e contraddizioni. Si parla dell’amore per un altra donna, ma il libro è sopratutto un indagine su sé stessa, sui propri desideri e paure, un percorso di consapevolezza che disvela la natura incestuosa dell’amore: l’oggetto del desiderio è una proiezione di una parte del proprio sé, un narcisismo; in questo senso l’amore dimora nella casa dell’incesto. 
Come già aveva notato Freud le rielaborazioni ex post della psiche sono più significative della fenomenologia immediata, come quando il ricordo di un sogno viene modificato ripetutamente facendo emergere la direzione impressa dall’inconscio. Borges ad  esempio era in grado di citare a memoria interi capitoli di opere lette molti anni prima, le poche ma significative inversioni o sostituzioni che la sua mente operava ai testi son l’indizio più significativo e suggestivo del  suo giudizio su di essi.

Per chi non pago della fruizione impressionistica del testo volesse invece inoltrarsi in un tentativo interpretativo di simboli e figure sarà un valido aiuto la lettura dei dettagliatissimi diari dell’autrice. Resta però per me il dubbio di quale valore aggiunto possa portare al piacere della lettura ricondurre a elementi biografici figure dal grande impatto poetico come la danzatrice senza braccia (riferimento allo spettacolo di un ballerino dell’epoca),  o il fatto che l’amore lesbico avesse un oggetto reale nella moglie di un suo amante, o ancora l’interpretazione in chiave psicanalitica di figure come quella del corpo nudo senza pelle, immagine poetica di una sensibilità intensa e compiaciutamente dolorosa.
Una lettura diversa, senz’altro consigliabile

- Curiosità
Anais Nin (1903-1977) fu amica di Antonin Artaud, amante di Henry Miller e della moglie di lui, June; intrecciò una relazione con il suo analista, il freudiano Otto Rank; grafomane, riversò nei diari i trascorsi libertini e la  sua intera vita di scrittrice.

Oltre che per i “Diari” è sopratutto celebre per la produzione di letteratura erotica la cui opera più famosa è la raccolta di racconti “Il delta di Venere” (1978).
“La casa dell’incesto” fu concepita all’inizio del 1932 ed ebbe la sua prima pubblicazione a New York nel 1935.

[ La Casa dell'incesto / Anais Nin / ES (edizione con testo originale inglese a fronte)

13 apr 2012

Casinò Royale - di Ian Fleming


Ian Fleming (1908-1964)
Come noto si tratta del celebre primo libro con protagonista il super spione con licenza di uccidere, James Bond 007, impavido e infallibile agente del MI6, il servizio segreto britannico. Anche se come moltissimi ho visto numerosi film tratti dai romanzi di Fleming non  avevo ancora mai letto i libri, perciò quando ho visto su una bancarella “Casino Royale” il primo della serie, ho deciso di colmare la lacuna. Prevedibilmente il climax del libro è figlio del suo tempo, la guerra fredda e la lotta contro l’impero del male, quelli che mangiano i bambini. Il personaggio di Bond è intrigante, sicuro di sé ma quasi normale rispetto alle esagerazioni superomistiche delle versioni cinematografiche (a proposito tra i più vecchi, il film che preferisco è Goldfinger del 1964). 
Il Bond di carta è un uomo audace ma fallibile, nel libro infatti è ripetutamente vittima di inganni e viene ferito; anche il cliché dell’uomo che usa le donne con cinismo senza mai farsi coinvolgere è rovesciato, qui cade vittima dell’amore e dell’inganno, anche se poi si riscuote bruscamente con un insolita, inumana freddezza non appena scopre il doppio gioco di lei. La cosa più distonica rispetto al modello cinematografico e la dinamica statica dell’intreccio: appostamenti, lunghe partite a carte, gite al mare. Poca azione (anche se non manca qualche colpo d’arma da fuoco, una bomba e persino il classico inseguimento automobilistico), la stessa missione viene dichiaratamente presentata come un qualcosa che ha scarse probabilità di successo ed è in buona misura in mano al caso (il clou della faccenda è che Bond deve battere al gioco d’azzardo un criminale internazionale per esporlo finanziariamente con alcuni suoi “amici” ben poco concilianti), Bond non riceve l’incarico perché è una sorta di superman della categoria spioni (mira infallibile, abile nei travestimenti, saltimbanco, poliglotta o altro) ma più banalmente perché ha sangue freddo ed è un buon giocatore d’azzardo. 
Come si vede l’autore esplicita una critica rispetto ad azioni di “intelligence” che non sempre spiccano per la qualità omonima e appaiono più come l’azzardo giocato sulla pelle di fedeli soldati (non diversamente da quanto accade sui campi di battaglia con la cinica stima dei morti preventivati per le operazioni sul campo). 

La lettura del romanzo è davvero piacevole, si viene trasportati in luoghi esotici, tra lussi e belle donne. Un’atmosfera sospesa, irreale di calma, che copre come un sudario la tensione dell’inganno sempre in agguato. Il drink è onnipresente e sembra il solo modo di ammazzare il tempo mentre Bond e compari recitano la parte dei ricconi con consumata nonchalance. Il cattivo di turno porta il cartoonistico nome di “Le Chiffre” e Bond (una regola in tutti i film) non si nasconde dietro uno pseudonimo ma si presenta a tutti con il suo nome, come se il mondo del crimine e delle spie (siamo in piena guerra fredda e tutti spiano tutti) non avessero modi e mezzi per identificarlo (cosa che infatti immancabilmente avviene). La bella di turno porta il nome di Vesper e sarà l’unico, rinnegato amore di Bond. 

Considerando che il libro è stato pubblicato per la prima volta nel 1953 le ragioni del suo successo sono decisamente comprensibili, l’Europa si stava appena risollevando dalle devastazioni della guerra e da una recessione economica devastante e fantasticare di uomini e donne sempre impeccabili in abito da sera, a sorseggiare drink tra lussi inarrivabili in terre lontane in cui regna un’estate sempiterna non poteva che incontrare la reverie di molti. A ciò si aggiunge l’elemento eroico del paladino del bene che supera ogni difficoltà e trionfa sul male.
L’omonimo film “Casino Royale” del 2006 con Daniel Craig nella parte di Bond è l’adattamento cinematografico a mio avviso più riuscito, attualizzato e fedele al modello allo stesso tempo, più fedele al personaggio originale (un uomo rude e problematico, non il perfettino, saccente e rimorchione, alla Sean Connery o Roger Moore). La sceneggiatura  ricalca il tema della partita a carte, aggiorna l’ambientazione e sopratutto aggiunge elementi action per dare spazio a una raffica di effetti speciali. Da notare che nel libro l’auto del primo Bond non è la mitica Aston Martin (una splendida DBS nel film) ma una Bentley vecchiotta, comprata usata. Il primo Bond letterario è molto meno action dei film Holliwoodiani ma questo non significa che manchino trovate di grande impatto, ad esempio la tortura cui viene sottoposto Bond è quanto di più terrificante un uomo possa immaginare, (si direbbe quasi una vendetta dell’autore contro il fascino impareggiabile del suo personaggio) e questo senza ricorrere a scene splatter o fiumi di sangue stile Tarantino, la medesima trovata è brillantemente trasposta anche nel film.
- Curiosità
Goldeneye - La dimora jamaicana di Fleming
Come noto Fleming era stato una spia e dopo la guerra nel 1946 si costruì una casa in Giamaica che chiamò Goldeneye dove si trasferì, fu in questo esotico rifugio che nel 1952 iniziò a scrivere il primo 007. 
Seguiranno altri 11 libri con James Bond protagonista, al ritmo di uno all’anno fino al 1964 anno della morte di Fleming.


[ Casinò Royale / Ian Fleming / Guanda ]

10 apr 2012

Il diritto all’ozio - di Paul Lafargue


Paul Lafargue (1842-1911)
Nell’Italia del 2012 è un continuo sproloquiare dei media sulla necessità di fare sacrifici, ridurre i diritti dei lavoratori, ridurre le pause, aumentare l’orario di lavoro, prolungare la vita lavorativa, ridurre e posticipare l’erogazione delle pensioni, etc. Per questo ho ritenuto interessante recensire questo celebre pamphlet che fu tra i maggiori contributi all’affermarsi del principio (oggi tanto fuori moda) della tripartizione della giornata lavorativa in 8 ore di lavoro, 8 di riposo e 8 per ricrearsi. Dannatamente inattuale e terribilmente attraente, o no? Siamo nell’epoca post ideologica, i sistemi socialisti sono implosi dunque che cosa avrà mai da dire di attuale un testo così “fuori tempo”: sorprendentemente molto!
In questo arguto pamphlet si rivendica il diritto di non fare nulla o meglio il diritto di poter fare “altro” dal lavoro, quell’altro che è precisamente la migliore salute, il coltivarsi nel corpo e nello spirito, ovvero la più alta forma di umanità.
Anche San Paolo esaltava la laboriosità, “chi non lavora non mangia” la regola fatta propria dai primi socialisti in polemica con il parassitismo del fare niente dei padroni, tutta la cultura moderna occidentale è permeata dall’etica del lavoro, tanto e bene, del diritto/dovere di lavorare; Lafargue tuttavia opera una rivoluzione prospettica: se è vero che “il lavoro rende liberi” e pertanto è imperativo il “diritto al lavoro”, ovvero la “libertà del lavoro”, questo non è tuttavia il fine ma un mezzo, occorre sapersi contenere dalla spinta a lavorare sempre di più, giacché la libertà di cui il lavoro è strumento, è in realtà la libertà (liberazione) dal lavoro stesso, macchine e progresso tecnologico forniscono il necessario surplus produttivo tale da consentire una più equa ridistribuzione delle fatiche e una minore (in termini percentuali) necessità di dedicarsi alle fatiche della produzione.

Questo breve (circa 40 pagine) ma fortunatissimo scritto è stato pubblicato in moltissime lingue e ancora oggi 132 anni dopo la sua prima pubblicazione offre spunti di riflessione tutt’altro che desueti. L’autore Paul Lafargue, genero di Marx (quello del Capitale), pubblicò “Il diritto all’ozio” nel 1880, obiettivo della sua invettiva erano i “Diritti dell’uomo” figli della rivoluzione francese, ovvero in particolare i limiti di orario della giornata lavorativa fissati per uomini, donne e bambini. Da buon socialista Lafargue rifiutava il compromesso con il sistema perché dal suo punto di vista qualunque compromesso è una concessione al sistema, come Rostagno oltre un secolo dopo, egli non voleva sedersi al tavolo (della trattativa) ma rovesciarlo. All’epoca della prima industrializzazione gli orari di lavoro standard erano notevoli 14/16 ore al giorno (anche in miniera), settimane di 10 giorni, le varie festività specie quelle religiose erano state abolite da Napoleone (o comunque drasticamente ridotte) e il risultato era sotto gli occhi di tutti, i salariati diventavano nuovamente schiavi, questa volta del lavoro; ad ogni crisi da sovraproduzione si innescava una guerra tra poveri rassegnati al ribasso pur di non perdere il lavoro (unica via di sopravvivenza). Il punto di vista di Lafargue è che sia appunto il sistema capitalista a incatenare i salariati e a immetterli in un meccanismo autodistruttivo, sono infatti proprio i salariati (non consapevoli del meccanismo) che  esposti come sono agli alti e bassi del mercato, chiedono via via sempre meno diritti e sempre meno denaro in cambio di orari sempre più dilatati e periodi di riposo sempre meno frequenti, questo per l’ansia di perdere anche il poco che hanno. 
1907 - Minatori italiani (bambini compresi)
Non a caso, fa notare Lafargue con caustica ironia, sono gli stessi industriali a imporre una riduzione dei turni di lavoro (parliamo di 14 ore al dì, dei veri benefattori) e qualche giorno di pausa obbligatorio ogni tanto, questo perché la produzione ne risente positivamente in qualità e quantità. Ora se è vero, come dimostrano le cifre ufficiali fornite dagli stessi industriali, che una piccola riduzione dell’orario di lavoro ha ottenuto uno straordinario aumento della produzione, chissà quali incredibili risultati darebbe una riduzione dell’orario di lavoro a sole 3 ore al giorno, che è appunto la provocatoria proposta di Lafargue.
Al di là delle provocazioni gli strali di Lafargue colpiscono nel segno e sono sorprendentemente attuali nell’analisi ancora oggi, Lafargue non visse abbastanza per vedere applicato il principio delle 8 ore giornaliere e della pausa settimanale (a favore del quale si era battuto risolutamente) che a partire dal 1909 in Francia incominciò poi a essere adottato negli anni successivi in larga parte degli stati europei. Sul finire degli anni ’30 erano milioni i salariati che godevano di un cospicuo periodo di riposo estivo, nel 1936 oltre 1milione e mezzo di parigini inaugurò il fenomeno degli esodi estivi lasciando Parigi per il mare durante la pausa estiva dal lavoro. Alla fine degli anni ‘50 inizio ‘60 esplose il fenomeno degli esodi estivi di cui il campeggio fu la bandiera del riposo popolare. 

Ora nel 2012 in questa Italia martoriata dalla crisi economica si va raccontando che questa ubriacatura di libertà dal lavoro è stata un’illusione, una frode che le generazioni passate faranno pagare alle presenti e alle future. Sobrietà, abnegazione, rigore: sono le parole d’ordine del potere post crollo finanziario. La ricetta è quella di un secolo e mezzo fa, quella dei primi grandi imperi industriali: riduzione dei diritti dei lavoratori, allungamento dell’orario di lavoro, diminuzione delle giornate non lavorative, turnazione per produzione a ciclo continuo e addirittura ora c’è chi incomincia a parlare della necessità di fare corrispondere i salari all’effettiva produttività, come se questa dipendesse direttamente dal lavoratore e non anche (e sopratutto) da altri fattori quali investimenti in tecnologie produttive. E una volta ottenuta questa sovraproduzione (la stessa Fiat di Marchionne aveva fissato obiettivi produttivi molto superiori ai reali trend delle vendite) dove mai si potrà trovare un mercato in grado di accogliere i prodotti quando i salariati, sempre più poveri e compressi nelle loro risorse, non avranno più i mezzi per diventare a loro volta consumatori?

La disoccupazione è un sacrificio necessario per superare la crisi, una cosa temporanea per stare meglio dopo, così recita il potere (in Italia e altrove) eppure come mai potrà la minoranza, sebbene sempre più ricca, compensare la riduzione forzata dei consumi di masse di milioni di persone? Nel mondo di Lafargue le fabbriche producevano più di quanto potesse essere collocato sul mercato interno (e per questo gli stati cercavano nuovi mercati con le conquiste militari), i salariati erano esclusi dalla possibilità di acquistare gli stessi beni che producevano e pertanto la distanza tra ricchi e poveri aumentava. E’ dell’aprile 2012 la notizia che in Italia i capitali dei 10 uomini più ricchi della nazione sia pari alla somma degli averi di 3 milioni degli italiani meno abbienti, una distanza siderale. Inoltre i livelli di sovraproduzione moderna sono enormemente più elevati di quelli di fine ‘800 e paradossalmente il vasto mondo globalizzato non è più (per altri versi, non è ancora) un mercato sufficientemente elastico e permeabile da assorbire i volumi produttivi dell’occidente industrializzato.
Il diritto all'ozio
Oggi nel pieno della crisi economica del 2012, 132 anni dopo la pubblicazione del pamphlet di Lafargue, i turiferari del capitale non fanno che instillare il senso di colpa: avete fatto le cicale ora vi tocca rimediare. Ma la crisi globale non era partita dalla speculazioni finanziare di pochissimi super ricchi? e ancora questa forbice tra ricchi e poveri non si è ulteriormente allargata? e allora la Tobin tax (-0.05% sulle transazioni finanziarie)? Macché, colpa nostra che non abbiamo voglia di lavorare; dobbiamo lavorare di più guadagnando meno e se il lavoro non c’è è perché le aziende non possono licenziare quei pochi che un lavoro (sempre peggio pagato) ancora ce l’hanno. Che il danno ci sia e sia grave non ci sono dubbi, così come non ci può essere dubbio alcuno che siano stati coloro che adesso propongono le loro soluzioni a provocare la malattia che cercano di curare. Quello che francamente trovo incredibile è che il clima da catastrofe imminente abbia reciso ogni capacità di critica e di reazione, il meccanismo mi ricorda quello della guerra al terrore di Bush, siamo davanti a catastrofi incombenti di enormi proporzioni, mettete da parte ogni resistenza e fidatevi di noi, se non siete con noi siete parte del problema. 
Ora il punto è: con che diritto un manipolo di teorici la cui vita non è mai stata neppure lontanamente apparentata alle condizioni di vita della maggioranza delle persone, può decidere per tutti? La sola spiegazione è la paura. E’ la paura, e anche la vergogna, quel senso di inferiorità e di colpa che i media stanno propagandando che fanno sì che invece di reagire ci si rassegni. Il governo Monti non è responsabile del disastro al quale è stato chiamato (ma non dagli italiani) a porre rimedio, ma anche questo gruppo di saggi è fallibile, e la ricetta proposta ha costi sociali che solo un algido cinismo può considerare accettabili. Se quel che conta è il risultato allora si poteva fare come Stalin che se l’era presa con i Kulaki, in Italia avremmo potuto giustiziare metà dei pensionati (non erano loro le cicale?) e avremmo dimezzato il debito, ricetta troppo eugenetica? allora perché non abbattere gli stipendi pubblici più alti (tutti, politici e professori compresi) a livello di un quadro di una pmi? questo non avrebbe causato la fuga dei capitali privati interni ed esterni, ma avrebbe almeno a livello dello Stato dimostrato la condivisione del sacrificio a cui si chiama l’intera nazione, altrimenti l’input al sacrificio collettivo suona come il motto di quei gerarchi che incitavano le reclute “armatevi e partite!”
Licenziati/Clochard a Osaka
In Italia hanno destato molto clamore i recenti casi di suicidio tra pensionati, imprenditori e dipendenti stremati dalla recessione economica (e atterriti dalle riforme in atto), tuttavia malgrado le inevitabili e non del tutto immotivate aspre polemiche, è chiaro che non sono direttamente frutto dell’azione di questo governo. A mio avviso la causa prima di questo fenomeno va cercato altrove, presumibilmente in problematiche individuali che trovano nel clima da catastrofe incombente l’ultimo e in realtà il meno determinante stimolo a gesti lungamente premeditati. In Giappone c’è un fenomeno unico (almeno per ora) di istituzionalizzazione del fallimento personale, chi fallisce non si suicida più fisicamente ma socialmente (il seppuku è cosa da samurai, ormai solo il tragico vezzo di  qualche premio Nobel autoctono). Chi perde il lavoro si autoesclude dal mondo civile sottraendosi dal giudizio collettivo, la vittima di questa enorme pressione morale, la sanzione sociale del fallimento, semplicemente si sottrae alla vergogna e con questa sparizione salva e libera la sua famiglia dalla gogna sociale. E’ il fenomeno degli impiegati e dei dirigenti giapponesi che perdono il lavoro e che invece di tornare a casa e esporsi al pubblico ludibrio per quello che è vissuto come una colpa personale, si autoemarginano andando a vivere come clochard nei vicoli delle grandi metropoli, non più cittadini, non più oggetto di sanzione alcuna, letteralmente al di là del bene e del male. Questo fenomeno dà da pensare se si considera che in una grande città come Milano le statistiche parlano di persone che si indebitano pur di fare le vacanze all’estero e non è raro il fenomeno di quanti non potendo “andare in vacanza” si autorecludono nella propria abitazione chiudendo le persiane ed evitando il contatto con le persone per simulare di essere anche loro in ferie.
Concludendo la lettura de “Il diritto all’ozio di Lafargue” è una buona medicina, quasi un’iniezione di ottimismo in tempi così cupi. L’invettiva di Lafargue non è infatti contro il lavoro in sé quanto piuttosto al suo eccesso e sfruttamento. Certo rispetto agli orrori del primo capitalismo i cui inferni si chiamano miniere e telai meccanici e che vedono un’umanità cenciosa, bambini compresi, ai limiti delle proprie forze contendersi il lavoro a colpi di ribasso delle proprie pretese, il lavoro moderno può sembrare un parco giochi. Quel che resta di invariato però è il principio, il lavoro libera, è un diritto, ma non deve diventare eccessivo altrimenti non solo causa abbruttimento ai sommersi ma anche  l’eccessiva divaricazione che verrà a crearsi tra ricchi e poveri non permetterà più di collocare i beni prodotti. 

Milton Friedman (1912-2006)
Nella concezione liberista alla Milton Friedman si ritiene appunto che sia il mercato stesso ad autoregolarsi riequilibrando quando necessario in base ai flussi di domanda e offerta, ma questo come la storia insegna non è assolutamente vero sul piano delle conseguenze umane (basti pensare al Cile friedmaniano di Pinochet ). Per capirsi anche il caso dello schema di Ponzi è teoricamente autoregolatorio, infatti mano a mano che la piramide (il multilevel) si allarga il sistema non è più in grado di sorreggere l’illusione e collassa, è quello che è successo con Madoff. Quello che però la teoria non dice è quanti cadaveri tale crollo lascia dietro di sé, nello specifico il danno è stato di tale entità da sconquassare l’equilibrio mondiale. Ora è chiaro che se ci si pone sempre dal punto di vista del gruppo dei salvati il problema non ci riguarda, e anzi il male necessario, fortifica il sistema. Tuttavia gli eventi della crisi finanziaria mondiale hanno mostrato come il confine tra sommersi e salvati sia molto labile e come l’ascensore sociale funzioni in una sola direzione verso il basso, dove i salvati salgono sempre più su ma per strada perdono alcuni colleghi che vanno a ingrossare la massa dei sommersi. Solo un feroce darwinismo sociale può sostenere un tale cinismo opportunista. Pur non confidando nell’umana bontà preferisco pensare che l’istinto sociale (e di sopravvivenza) possa infine prevalere malgrado le affabulazioni pirotecniche di una informazione non sempre a tutto tondo.